Un’ombra o un coltello gocciolante?

«Quanta violenza è lecito – accettabile, di buon gusto, intelligente – usare?» è una domanda che chiunque scriva, soprattutto se scrive avventura, polizieschi, horror, fantasy e sf, si è posto o è stato costretto a porsi. Si tratta di un ingrediente necessario ma che è prudente dosare con estrema attenzione. In agguato, infatti, ci sono sempre l’effetto-carneficina, l’effetto-macelleria o l’effetto-autopsia che rischiano di far deragliare il romanzo o il racconto nel puro e semplice grottesco. E il grottesco è un ottimo aperitivo al comico.

Quindi è bene dosare con attenzione e non andare giù piatti con gli occhi cavati dalle orbite, ossa che escono dai gomiti, budella fumanti e crani scoperchiati. C’è gente (come il sottoscritto, ad esempio) che non aspetta altro, per ridere. Nella classica combinazione con il sesso tiene sicuramente il lettore incollato alla pagina ma la miscela, come la nitroglicerina, non è troppo facile da maneggiare. Soprattutto è difficile fermarsi e non obbligare i propri personaggi al mercimonio dei propri istinti per compiacere autore e lettore.

Però spesso un po’ di violenza è necessaria allo sviluppo logico e narrativo. Non si scappa. In qualche caso la violenza – l’omicidio , l’agonia, lo scontro a fuoco, la mischia, l’aggressione, la tortura – costituisce il centro di gravità dell’intreccio. Come regolarsi?

Personalmente, nella maggior parte dei casi, preferisco che la violenza non venga direttamente sceneggiata ma costituisca un ulteriore elemento di tensione. Alla violenza agita preferisco quasi sempre la violenza possibile, la minaccia più o meno vaga ma sempre presente. Mi affascina la violenza classicamente indicibile – un fantasma fa più paura di un fatto, non è vero? – delle storie gotiche. Un’ombra è molto più inquietante di un coltello gocciolante.

Ma mi sembra che non sia questa la linea ultimamente più praticata. Anzi, molti tra gli autori italiani di gialli/noir fanno ricorso a una violenza barocca ed eccessiva, talvolta insistendo sul particolare raccapricciante e su una corporeità greve e fastidiosa. Interessante notare, poi, che questo atteggiamento sia presentato come segnale di una narrazione schietta, diretta e coraggiosa.
Sono convinto che nella maggior parte dei casi l’esibizione di trippe, unghie strappate e cadaveri putrefatti sia una scorciatoia drammatizzante per puntellare storie deboli o poco originali, ma non sempre è così.

Almeno in parte differente il discorso per quelle vicende che si svolgono in ambienti e situazioni nei quali l’uso della violenza è massiccio e organizzato, come nel racconto di un conflitto. E quando parlo di violenza non mi riferisco alla «scena d’azione» dove l’eroe è costretto a sparare N proiettili per salvarsi. Resta il fatto che io continuo a ritenermi molto «puritano» nell’uso della violenza, cercando di limitarne l’uso alle occasioni e alle circostanze nelle quali è insostituibile. Mi rendo conto del suo oscuro fascino e del suo potere narrativo, quindi cerco di controllarne l’uso.

9 pensieri su “Un’ombra o un coltello gocciolante?

  1. Quello della violenza è un ingrediente difficile da dosare.

    La dimostrazione di violenza è spesso la più comoda scorciatoia per comunicare al lettore quanto potente, spietato ed inumano sia il cattivo o, più genericamente, il mondo in cui si svolge la storia.

    Naturalmente, ci si può arrivare con altri mezzi.
    Difficile battere la sintesi di questo stralcio di dialogo (da “Ronin”):
    “Sono pronto ad ammazzare a sangue freddo uno di quei bambini, e neppure lo conosco. Pensa cosa potrei fare a te, che ti conosco da anni”

    Niente violenza effettiva, solo minaccia – ma abbiamo un’istantanea che definisce sia il personaggio che l’ambiente in cui si muove.
    Oppure, come esercizio, rimando al dialogo fra Mal Reynolds e l’Agente in “Serenity” – “Io non uccido bambini…”

    Esiste una legge della contrazione degli utili (la spiega bene uno dei protagonisti di “Scream 2”, di Wes Craven) – se nel primo capitolo metto uno sgozzamento, nel terzo dovrò metterci uno sbudellamento…
    Si arriva allo splatter.

    Restando nell’ambito del fantastico, autori eccellenti hanno dimostrato che si può scrivere un buon racconto d’azione lasciando gran parte della violenza in ellissi – penso a M. John Harrison (i combattimenti nella serie di Viriconium avvengono per lo più fuori scena) o al ciclo delle Spade di Leiber, ma a ben guardare anche Howard era piuttosto misurato – e più portato a ritrarre la possanza fisica dei combattenti che non gli schizzi di sangue e osso frantumato.
    E nel poliziesco, c’è una bella differenza fra Chandler e Spillane.

    Io quando posso cerco di mantenere la violenza al margine, oppure appunto fuori scena.
    La faccio narrare da un personaggio anziché descriverla, al limite.
    Metto della distanza.

    Per le storie di conflitto – non che ne abbia praticate granché di recente – faccio tesoro della lezione di Glen Cook, e cerco di lasciare il lettore atterrito non dal semplice “body count”, ma dalla modalità con la quale questo viene raggiunto.

    Il tutto, infine, deve essere funzionale ala storia.
    Ma non è facile, come equilibrismo.

  2. Concordo in pratica parola per parola.
    Ma mi interessa e mi incuriosisce l’uso pianificato della violenza – talvolta tanto insistito e coreografico da risultare (più o meno volutamente) parodistico o autoparodistico. Le pagine iniziali di «Bastogne» di Enrico Brizzi – ferocissimo scontro a fuoco in un ristorante cinese – sono la trascrizione dattilografica delle scene iniziali del film «Strange Days». A parte la sensazione di già visto e già letto (e quella di essere presi in giro da un mestierante a corto di fantasia) l’efficacia della scena sulla pagina, per quanto sufficientemente adrenalinica, non reggeva quella del film.
    Per cui, a parte le linee di condotta personali, rilancio la domanda: è possibile – oggi, 2008 – scrivere scene di violenza autenticamente letterarie e che non ricalchino modi e tempi del cinema, ovvero che siano originali e non parassite?

  3. Molto molto difficile, perché il cinema è il luogo principale nel quale la maggior parte di noi ha sperimentato la violenza.
    Non abbiamo fatto la guerra.
    Non siamo stati membri di gang.
    Difficilmente siamo stati coinvolti in una scazzottata.
    Qualcuno forse era a Genova al G8 – ma gli scrittori tendono ad essere persone pacifiche, e quindi erano quelli seduti con le mani alzate, a fare resistenza passiva.
    Quindi, via – si mette su “Hard Boiled” di John Woo e si copia.

    L’alternativa è copiare quelli in gamba.
    E che la guerra l’han fatta.
    Io consiglio “Quanto Pesano i Fantasmi”, di Tim O’Brien.
    Che però mi risulta fuori catalogo.
    Vale comunque la pena di rintracciarlo – credo che in inglese sia uno di quei testi che non andranno mai fuori stampa.

  4. Che argomento meraviglioso. Ci giro intorno da giorni, ma non voglio intasarvi con un commento fluviale. Sono del tutto d’accordo sulla difficoltà enorme di gestire la violenza come argomento, ma tante volte la minaccia non mi basta. Un po’ di rappresentazione mi piace. O almeno, non mi fa scappare via, al massimo mi fa ridere se è eccessiva, tipo certe cannibalate. Ma certo, saper dosare è fondamentale.

  5. È stato un agguato, cara Consolata. Attendevo il tuo passaggio come un cacciatore e finalmente sei arrivata. Conosco il tuo modo di «trattare» la violenza e il modo tutto tuo di misurarla e non ho difficoltà ad ammettere che in diverse occasioni il tuo modo di declinare non soltanto la violenza ma anche il semplice incombere di essa è un elemento di forza di tante delle tue cose.
    Se trovi tempo e voglia, comunque, sarei ben contento di leggere un tuo intervento fluviale. Ne avrei sicuramente giovamento.

  6. Il tema è spinoso, in quanto solo una “artisticità” del prodotto finale e un suo valore intrinseco danno senso alle immagini di cui è fatto. Per esempio, per Tarantino la violenza è estetica (?!) pura, perdendo ogni connotato etico o semplicemente umano. Distacco totale col significato del gesto. Nel caso di cose come Kill Bill non si tratta nemmeno più di un mezzuccio per attirare l’attenzione, è solo pornografia, credo.
    In alternativa a roba del genere mi sono sempre sognato un western o un poliziesco diciamo “empatico” in cui ogni personaggio che subisse una legnata o un ferimento comunicasse davvero al pubblico l’idea di dolore, di offesa, di invasione, con conseguente perdita di identificazione dello spettatore con quello che le botte le dà.
    Sarebbe carino, no?
    Però, per quanto detesti splatterpunks e affini, mi chiedo: che sarebbe King senza i suoi colpi bassi? E Ballard senza le sue sublimate efferatezze? E per puntare più in alto, dove mettiamo Cèline, che di violento ha il linguaggio stesso?
    Forse bisognerebbe attenersi alla regola fondamentale in cucina: sale e pepe Q. B.

  7. Bella l’idea del poliziesco «empatico». C’era qualcosa di simile in un vecchissimo racconto di Lino Aldani, uscito a metà degli anni ’60, capofila di migliaia di altri racconti e film di tema omologo. Si trattava di un marchingegno grazie al quale si potevano sperimentare emozioni e sensazioni sintetiche, quindi «diventare» Condottieri o Pornodivi e provare l’emozione di uccidere ed essere uccisi (o, più pacificamente, di amare migliaia di uomini e donne).
    Il racconto di Aldani – grandissimo scrittore di sf italiano poco e male ricordato – richiamava comunque un aspetto della violenza narrativa che non è di poco peso. Mi riferisco alla violenza catartica, ovvero la violenza compiuta per riparare a un grave torto personale o sociale.
    Quella che fa dire al lettore: «Ben fatto!».
    Quando Conan fa strage di vili mercenari e di viscidi e immondi mercanti di schiavi siamo tutti con lui e simbolicamente stringiamo la sua spada o la sua ascia. E al termine del massacro si sentiamo tutti più buoni e giusti.
    Questo genere di violenza non ammette distinguo né sottili implicazioni morali. È simbolicamente la Giustizia e ci rende pacificati.
    Un meccanismo narrativo infallibile e, ovviamente, molto pericoloso.
    Quanti naziskin cercano lo scontro fisico per provare l’esaltante sensazione di compiere una giustizia che la debolezza dello stato non riesce a condurre?
    Sarebbe interessante, credo, una riflessione sull’autorappresentazione del mondo come (mediocre) canovaccio narrativo da parte di chi propugna soluzioni sbrigative e violente a ogni problema…

    Consolata: esiste un’ampia interfaccia tra i rituali di violenza e quelli sessuali. La tortura – che in forma più o meno realistica fa parte del bagaglio «storico» del sadomasochismo, ovvero di un tipo di pratica sessuale piuttosto diffusa – comporta una vicinanza e una conoscenza del corpo e delle sensazioni dolorose (e reciprocamente, piacevoli) che appartiene di diritto sia al mondo del dolore che a quello del piacere. Lo sgomento – e il disagio – che certi passaggi nei testi di autori come Mo Yan e Andric creano nel lettore penso vengano anche dalla capacità di narrare con apparente semplicità il corpo violato e mutilato e da tutti i non detti di natura sessuale ai quali alludono. In fondo la violenza è viatico a uno degli elementi centrali della narrativa di ogni tempo: la morte. Se a esso si aggiunge – o il lettore aggiunge – il riferimento sessuale, si va letteralmente «fuori scala». Molti davanti a questo genere di «violenza» più o meno ritualizzata si ritraggono spaventati, altri ne sono magneticamente attratti. Gi autori che sanno farne materiale narrativo non corrivo o banale hanno tutto il mio rispetto. Anche perché sottolineano un esigenza che un autore dovrebbe sentire. E qui spudoratamente ti cito: «Credo che scrivendo sia importante andare sempre un po’ oltre, naturalmente non solo nel campo della violenza, ma in tutte quelle direzioni che richiedono di forzare un pochino la propria natura».
    Per quanto mi riguarda, vista la mia predilezione per il genere, posso citare come acme di violenza in campo sf «Il pianeta Sangre» di Norman Spinrad. Davvero notevole, anche grazie alla presenza del cannibalismo su larga scala. Un incubo oscuro e sanguinario reso ancor più terrificante dall’evidente e atroce riferimento alla «naturale» ferocia umana. Una sorta di «Signore delle mosche» elevato al cubo.

  8. Pianeta Sangre di Spinrad è un romanzo incredibilmente efficacie – specie (io credo) perché narrato dal punto di vista di un gruppo di cialtroni; nel senso chegli “eroi” della storia sono tre mascalzoni che si trovano a sbattere contro qualcosa di molto più orribile di qualsiasi cosa abbiano fatto (o pianificato) loro stessi in precedenza.

    Eppure la violenza grafica del romanzo è minima.
    la scena più spoaventosa, a ben pensarci,viene completamente “telefonata” (quasi letteralmente) – e poi ne vedremo solo le conseguenze sulla psicologia dei protagonisti.
    E dire che Spinrad non è neanche considerato uno troppo in gamba.

    Uno invece che in gamba lo era (e gli veniva riconosciuto) era K.E. Wagner – ma bisogna ammetere che certe storie di Kane sono delle autentiche spremute di sangue. Penso al peraltro eccellente “Le Trame dell’Oscurità”, o all’altrettanto valido “Crociata Nera”.

    E poi naturalmente c’è John Norman – che non è per niente in gamba, e che per fortuna da noi non ha mai attecchito…

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