Quasi un secolo di Jack Vance

lurulu

Parlare di Jack Vance nel 2013, a ben 97 anni dalla sua data di nascita, ha qualcosa di strano.

Jack Vance quasi come Jules Verne, ovvero due autori che hanno accompagnato le mie letture fantascientifiche fin dalle origini.

Un autore per me importante e inevitabilmente molto amato, arrivando persino a perdonargli alcuni non piccolissimi difetti, come il sostegno alla guerra del Vietnam esplicitato con altri 72 autori di sf che firmarono un appello pubblicato dalle riviste «Galaxy» e «If» nel lontano 1968. Tra gli autori che lo firmarono c’erano comunque – parlando delle mie personali passioni letterarie – anche R.A.Lafferty e Jack Williamson e la firma di Vance mi parve un errore tipicamente americano, un rifiutarsi di ammettere in nome dell’amor di patria che la politica condotta era oltre che sanguinaria e pericolosa, anche assolutamente idiota.

Per la cronaca, comunque, gli autori contrari alla guerra del Vietnam risultarono prevalenti – 82 contro 72 – e fra loro si trovavano gradi scrittori come Dick, Farmer, Le Guin, Spinrad, Bradbury, Leiber, Delany, Ellison… Vinsero i buoni, in sostanza.

Ma il mio amora per Vance e per la sua narrativa non risentì delle sue posizioni politiche. Mi duole ammetterlo, ma non sono mai stato in grado di estendere la mia disapprovazione politica in campo estetico e narrativo. Potevo soffrire leggendo qualche tirata, fortunatamente breve, di Vance sulla correttezza e la moralità della pena di morte, ma il piacere della lettura finiva sempre per prevalere e il mio Io etico veniva, in un modo o nell’altro, tacitato.

Adesso Vance ha 97 anni e il suo ultimo lavoro risale al 2004, titolo Lurulu. Un romanzo scritto – o meglio dettato, dal momento che l’autore ha perduto la vista già dal 1980 – alla bella età di 81 anni. Particolare non secondario, Lurulu fu da lui presentato come il suo ultimo libro di fiction, infatti a quello seguì la sua biografia, This is me, Jack Vance!, vincitore nel 2010 del premio Hugo come “opera collegata alla sf” e (ovviamente) mai pubblicata in Italia.

Insomma, dovendo parlare di Jack Vance, non posso fare a meno di descrivere il mio rapporto con i suoi libri in un modo o nell’altro come luciferino, empio e perverso, con tutto quello che di buono possono contenere questi aggettivi. E parlare di lui come del mio elegante, accurato, ingegnoso e perfido diavolo personale.

Simpathy for the devil, cantavano i Rolling Stones durante la mia adolescenza, una delle loro canzoni da me preferite. E del mio diavolo, John Holbrook Vance, noto ai lettori di fantascienza come Jack Vance, parlerò qui e dei suoi ultimi libri: Fuga nei Mondi Perduti (Ports of Call), Mondadori Urania 1999 e di Lurulu, (2004), le sue ultime opere di narrativa.

Rolling Stones - Sympathy for the Devil (1968)La storia non è nuova per J.V.

Protagonista è un giovanotto da poco approdato all’età adulta che, infiammato dal sogno di navigare, dapprima accompagna la zia zitella e matura (ma tuttora in tiro) in una crociera interstellare, ma viene poi scaricato non appena compare all’orizzonte un avventuriero capace di lusingare la vanità della stupida dama. Myron si trova così costretto a cercare un ingaggio sulla prima (astro)nave che incontra e trova la sua occasione sul Glicca, un vascello non esattamente nuovo di zecca, il cui comandante vive di trasporti al limite del lecito. Ciò che ne segue è la cronaca dei viaggi e degli incontri di Myron e dei suoi compagni, in mondi più o meno singolari e bizzarri, secondo le abitudini di J.V.

Fuga nei Mondi Perduti e Lurulu non sono né più né meno che il racconto deformato, eccessivo e grottesco di un vecchio marinaio, abituato a raccontare di strane genti, luoghi di una bellezza struggente, lingue incomprensibili, costumi assurdi, donne bellissime e pericolose, abili truffatori, fantasmi inquieti e impenitenti bari. Un po’ Stevenson, un po’ Mark Twain e molto Ambrose Bierce, Jack Vance è un narratore atipico per la fantascienza, uno di quegli autori che una scuola di scrittura creativa seria avrebbe tentato di normalizzare per il suo inglese ampolloso e ridondante, le sue parentesi sconvenienti, i suoi dialoghi ricchi di formalismi e le storie, dove la virtù è solo il lato ipocrita del vizio.

Ma Lurulu non è soltanto il titolo del romanzo, ma anche una particolare, inesprimibile emozione o condizione, un particolare destino, una forma del tutto personale di sorte. Un sogno materiale, una visione e forse un’illusione: ciò che si può avere la fuggevole sensazione di comprendere soltanto molto vicino al termine.

Come scrive Vance:

 Se ve lo ricordate, è di “lurulu” che parliamo. A rischio di essere banale, faccio notare che “sorte”, “destino” e “lurulu” non sono sinonimi. “Sorte è un concetto oscuro e pesante, “destino” è più simile a un bel tramonto [… ] Lurulu è personale, è come la speranza, o una voglia nostalgica, più reale di un sogno. […] Io credo che il cosmo sia un insieme di complessità, molte delle quali non hanno rapporto con le parole dei nostri linguaggi e possono essere individuate soltanto con l’uso di allusioni.

 Vecchio, maledetto diavolo.

L’ultima volta che ho “sentito” un concetto di questa complessità stavo leggendo Proust. E la volta precedente, sembra incredibile, ma si trattava di Salgari.

riconquista

E sono gli scrittori in qualche modo davvero bravi quelli che ammettono che, in definitiva, stiamo parlando di molto poco, forse di nulla. Perché non esistono le parole per raccontare a nostra vita. Perché le parole che ci scambiamo non bastano mai.

La passione di Vance per la parole che riappare in mille tratti del suo scrivere – dai nomi personali a quelli dei luoghi, delle celebrazioni, degli spettacoli e dei monumenti – e che è stata la punta di colore della mia passione per i suoi testi, ha una sua ragion d’essere nella ricerca costante di una definizione, della presentazione di un frammento di sentimento e di emozione che le parole abituali faticano a spiegare. Così “Lurulu” diventa, come realtà inesprimibile ma anche come lo scherzo di uno scrittore mercuriale – un vero demone burlone -, una condizione spirituale inafferrabile, un destino personale di instancabile movimento e di rara ed episodica pace, del quale si è solo improvvisamente consci e della quale è impossibile liberarsi.

Lurulu”, parola scelta non a caso come titolo del suo ultimo libro, diventa così un piccolo compendio di vita ed opere di Jack Vance, un “destino” che è anche ricapitolazione della sua esistenza e delle sue convinzioni.

Un modo tipicamente vanciano, a pensarci bene, per allontanarsi definitivamente dai suoi lettori. Anche da quelli che pur criticandone alcune scelte, l’hanno sempre avuto nel cuore.

4 pensieri su “Quasi un secolo di Jack Vance

  1. Vance è il secondo autore di fantascienza che incontrai nelle mie prime letture e di certo è quello che ho più stampato dentro. L’ho riletto a distanza di anni e – sotto forma di racconto o romanzo – non mi ha mai deluso. Per lui, Max, direi calzino bene i versi di Whitman: Mi contraddico/sono ampio/contengo moltitudini.

  2. MI contraddico? Sì, mi contraddico… bellissimi i versi di Whitman. L’autocontraddizione non è solo di Vance ma anche mia, nell’apprezzare un autore di idee tanto diverse dalla mie. Ma forse solo In apparenza. Come immagini leggendo – e anche scrivendo, male o bene non è importante – si finisce col frequentare luoghi e visioni che nella vita quotidiana si ignorano. Ed è qui che si incontrano gli altri autori, quelli che merita davvero incontrare.

    • Grazie. Va benissimo, fammi soltanto sapere se debbo copiarlo e inviartelo a mezzo e-mail o se riesci a prenderlo così.
      Ottimo per Eschbach, ovviamente mi fa molto piacere ripubblicarlo su LN out-of-print.

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